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Federica Dubbini

Filosofia
Il seme nascosto - tecnica mista su tela 80x120

FEDERICA DUBBINI FILOSOFIA

 

 

1976. Questo è l’anno in cui Genova mi da i natali. La terra e il mare ligure mi ospitano per 27 anni, prima di vivere l’esperienza milanese per una parentesi formativa e lavorativa durata qualche anno, approdando infine nel 2008 in Canton Ticino, a Bellinzona.

Nata a Genova, sì, ma con origini assai lontane, diversificate, non unificate. E questo carattere frammentario, questa contaminazione di radici diverse e diverse genti, è il bagaglio che mi porto dietro da sempre. E’ il sentire intimo e profondo di non appartenere a nessun luogo e a nessuna comunità realmente e fino in fondo, eppure il trovarsi al tempo stesso in una comunione così immediata e vera.

Con un certo disagio iniziale ad accettare questa mia condizione e modo d’essere, non tanto o non solo legata allo spostamento effettivo fisico e geografico, quanto più a uno stato mentale, nel momento in cui ho accettato di poter essere alla fin fine una zingara del mondo, errante, fluttuante, concedendomi di non appartenere fino in fondo a nessuna realtà, mi sono permessa di liberarmi dagli schemi e dalle strutture che questo tipo di appartenenza implica e di giungere allora all’essenza vera di cose, conoscenze, rapporti, luoghi, esperienze e di trasporre tutto questo in arte.

Essenza. Contaminazioni. E’ quanto mi connota come persona e in sostanza credo anche come artista: proprio come il mio essere individuo anche come artista anelo alla ricerca di un carattere puro e definito, radicale (anche nel senso etimologico del termine, con una definita radice), ma mi trovo mio malgrado a confrontarmi con tutta una serie di contaminazioni appunto che premono e chiedono di essere ascoltate e non escluse. Ed ecco quindi il risultato: una miscela di incontri, esperienze, racconti, colori che devono trovare una qualche forma e una qualche coerenza, un proprio posto in questo ampio e variegato scenario, col continuo rischio di apparire eccessive ed eccessivamente riempitive.

La filosofia in questo filo sottile, in questo baratro che minaccia di aprirsi da un momento all’altro, è quello che mi salva, la ricerca continua di chi si è, la scoperta quotidiana e mai finita del proprio mondo interno e di come esso possa trovare, se vi si riesce, una sorta di equilibrio col mondo di fuori.

Questo è il mio luogo di indagine, il terreno su cui sento che questi contrasti possono trovare non tanto una risoluzione, quanto un sano confronto e dialogo, diventando linguaggio mai unico e monodirezionale, ma sempre dicotomico, molto spesso lasciando l’indagine aperta, le domande senza necessariamente risposte, accettando quella porzione inevitabile di irrisolto e incompleto, quale cifra dell’esistenza e dell’opera d’arte stessa.

“Guai al quadro che non mostri niente al di là del finito! Il merito del quadro è l’indefinibile: ciò che sfugge appunto alla precisione”, così annota Delacroix nel suo diario ed è proprio questa l’irta strada da percorrere, la sfida continua nel fissare su una tela quel qualcosa che a raccontarlo sembra così intangibile e inafferrabile.

E’ la ricerca della trascendenza, del noumeno, di tutto quello che esiste al di là e indipendentemente da noi e che in quanto tale da origine a tutto, ai nostri stessi pensieri e modo di concepire e sentire il mondo.

Yves Klein asseriva “Tutti i colori generano associazioni d’idee concrete, materiali o tangibili psicologicamente”: solo il blu per lui era quanto di più vicino all’astratto nella natura tangibile visibile.

Ma il colore e la materia servano qui per indagare quello che è difficile anche solo raccontare a parole, quello che sfugge, quella porzione di sogno che rimane attaccata addosso come una sensazione fuggevole, senza poterne dare realmente nome e corpo o figura. Non indago ciò che vedo e ciò che è facilmente raffigurabile: quello che mi interessa è il viaggio, viaggio nella coscienza ma anche in tutto ciò che è buio, profondo, che dall’inconscio cerca di emergere e di raccontarsi. È il passaggio dall’impercettibile del sogno alla nitidezza della veglia, quel passaggio sottile e inafferrabile, la percezione di pochi attimi.

La natura è già dono quotidiano e oggettivo di bellezza e meraviglia, mostra di se stessa. Io ho la presunzione di provare a dare una mia personale fotografia di ciò che è nascosto, di qualcosa che non può essere oggettivo nè oggettivabile nella sua rappresentazione, e in questo sta anche il suo fascino e mistero e contradditorietà. Con ciò non intendo rinunciare alla bellezza estetica, all’equilibrio dei colori, al gioco tridimensionale delle forme e dei rilievi, tentando sempre e comunque una ricerca di accostamenti spesso improbabili e stridenti, provocatori anche, come lo sono le sfumature che colorano vissuti e ricordi trasposti sulla tela. Mi piace pensare che così come la mente oscilla e vaga dal presente al passato al futuro, allo stesso modo l’occhio possa perdersi tra queste mescolanze, addentrarsi nelle oscurità della mente e della memoria, sognare e immaginare mondi.

 

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